Prêt-à-porter, la democrazia nell’Alta Moda
Il termine prêt-à-porter è entrato nel vocabolario della moda alla fine degli anni Quaranta, quando i francesi incominciarono a utilizzarlo per tradurre il termine ready-to-wear coniato negli Stati Uniti. Il linguaggio della moda faceva così trapelare l’influenza del processo di americanizzazione che stava investendo l’Europa, dimostrandole che l’equazione moda = élite apparteneva al passato. Il ready-to-wear era una moda creata appositamente per la società di massa di un Paese – gli Stati Uniti – che rappresentava un modello di democrazia e di benessere. Anche il lessico della moda italiana si aggiornò introducendo due nuove categorie di prodotti: la moda boutique e l’Alta Moda pronta.
Il termine prêt-à-porter è entrato nel vocabolario della moda alla fine degli anni Quaranta, quando i francesi incominciarono a utilizzarlo per tradurre il termine ready-to-wear coniato negli Stati Uniti. Negli anni Trenta gli Stati Uniti erano stati la nazione su cui più di ogni altra si erano abbattute le conseguenze della crisi del 1929 e che più di ogni altra aveva adottato misure severe contro le importazioni. Tra i generi più colpiti dagli aggravi daziari figuravano i pizzi di Calais, su cui fu applicato un dazio ad valorem del 300%, i cappelli (con incrementi che variavano tra il 40% e il 75%, a secondo del tipo di copricapo), i ricami, il tulle e i lamè francesi, oltre naturalmente alla seta, alla pelletteria e ai capi di abbigliamento in lana. A seguito dell’introduzione dello Smoot-Hawley Tariff Act – la tariffa daziaria con cui gli Stati Uniti mandarono al mondo un chiaro segnale di volontà di isolamento –, le esportazioni francesi crollarono da 3.335 miliardi di dollari nel 1929 a 1.543 miliardi nel 1931.
Dopo un decennio di rapporti commerciali intralciati dal protezionismo, la rottura con la Francia si consumò con l’occupazione nazista iniziata nel 1940. Negli Stati Uniti gli eventi politici europei segnarono l’avvio di un periodo contrassegnato dalla valorizzazione delle risorse creative autoctone e dalla autonomia dai modelli di eleganza e di bellezza proposti da Parigi, due obiettivi che le restrizioni imposte dalla guerra resero imperativo raggiungere. Alla fine della seconda guerra mondiale il ruolo di trend setter dell’haute couture parigina appariva ormai seriamente compromesso. Il successo ottenuto dal New Look lanciato da Christian Dior nel 1947 non riuscì a mettere in discussione la nuova leadership conquistata, anche nel campo della moda, dal Paese che si poneva alla guida del mondo occidentale. Il linguaggio della moda fu contagiato dal processo di americanizzazione che stava investendo l’Europa, dimostrandole che l’equazione moda = élite apparteneva al passato. Il ready-to-wear era una moda creata appositamente per la società di massa di un Paese – gli Stati Uniti – che rappresentava un modello di democrazia e di benessere.
Il nuovo scenario internazionale venutosi a configurare dopo la guerra dava alla moda italiana un insperato vantaggio competitivo: le creazioni italiane erano raffinate, vantavano una specifica identità che derivava dai saperi artigianali e avevano l’invidiabile caratteristica di essere poco costose perché in Italia la manodopera costava assai poco. Per stare al passo con i tempi, anche il lessico della moda italiana si aggiornò introducendo due nuove categorie di prodotti: la moda boutique e l’Alta Moda pronta. La moda boutique, che negli anni Cinquanta decretò il successo delle sfilate fiorentine, contrassegnava una produzione caratterizzata dalla qualità dei materiali e dalla artigianalità delle tecniche di confezione, realizzata su scala sufficientemente ampia da poter essere commercializzata dai grandi magazzini americani che si collocavano nella fascia alta del mercato. L’Alta Moda pronta era invece costituita dalle seconde linee prodotte dalle case di Alta Moda italiane. Si trattava di collezioni che traevano ispirazione dalle creazioni più esclusive, semplificate e impoverite attraverso l’impiego di materiali più economici e il ricorso a tecniche di rifinitura e cucitura proprie della confezione in serie. L’ambiguità dei termini finì con il generare una «notevole confusione intorno alla precisa definizione del prêt-à-porter» – come si legge in un documento conservato nell’Archivio storico della Camera della moda, che si decise a muovere i primi passi nella direzione di una regolamentazione, un tentativo che sarebbe sfociato nella riorganizzazione del calendario delle sfilate e nella loro specializzazione.
Moda boutique e Alta Moda pronta sono produzioni che appartengono alla prima fase della storia della moda italiana. Decisive per assicurarle i primi successi internazionali, negli anni Ottanta sono state superate dalla confezione industriale che, attraverso la collaborazione con gli stilisti, ha reso la moda italiana autonoma e creativa nell’elaborazione dell’offerta di un nuovo prodotto di moda.
Bibliografia:
- J. Lanzmann e P. Ripert, Cent ans de prêt-à-porter, Éd. P.A.U., Paris, 1992.
- A.A.V.V., La moda italiana, 2 voll., Milano, Electa, 1987.
- E. Morini, Prêt-à-porter, in Enciclopedia della Moda. Universo moda, 3, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2005, pp. 181-201.