Stilista e fashion designer: l’effimero e il suo opposto?

Le innovazioni tecnologiche introdotte nell’industria dell’abbigliamento negli anni Settanta, e soprattutto negli anni Ottanta, hanno accorciato le distanze fra stilista e fashion designer. Il primo ad intuire le potenzialità creative della progettazione industriale dell’abito è stato Walter Albini. Da questa intuizione sono derivate innovazioni – fra cui la decisione di abbandonare le passerelle fiorentine per sfilare a Milano e la scelta di presentare le collezioni contrassegnate sia dal marchio dell’impresa che dalla firma dello stilista – che hanno impresso una svolta alla storia della moda italiana.

Alla fine degli anni Sessanta in Italia si incominciò a pensare ad una riqualificazione del prodotto industriale che fino quel momento non aveva avuto “stile”. Ben presto l’abbigliamento confezionato, che sino ad allora era rimasto legato al marchio aziendale o al nome della boutique, incominciò ad essere commercializzato con il nome dello stilista.

Nanni Strada definisce stilista colui che «determina il look creando l’immagine della donna, influenzandone addirittura l’aspetto fisico che diverrà il modello per il pubblico il quale, a sua volta, farà di tutto per adeguarvisi. L’obiettivo dello stilista è quello di catturare l’inconscio del consumatore abbigliando e proponendo come testimonial il divo del momento, affinché il pubblico si identifichi con quest’ultimo e scelga lo stesso prodotto». Secondo Nanni Strada le prerogative dello stilista ne fanno una figura professionale profondamente diversa da quella del fashion designer, il cui obiettivo è, invece, «quello di creare un indumento che si collochi nel contesto variegato dei linguaggi contraddittori del nostro tempo in maniera dialettica e creativa». Questa distinzione riflette il carattere spregiativo attribuito alla parola stilista dai designer industriali italiani negli anni Sessanta: stilista era sinonimo di effimero, di abbellimento esteriore degli oggetti, di pianificazione della loro rapida obsolescenza, mentre designer evocava lo studio della funzione d’uso dell’oggetto da progettare e della prassi produttiva da adottare in modo da coniugare estetica e funzionalità.

Le innovazioni tecnologiche introdotte nell’industria dell’abbigliamento negli anni Settanta, e soprattutto negli anni Ottanta, hanno in realtà accorciato le distanze fra stilista e fashion designer. La tecnologia ha consentito di aumentare la qualità intrinseca dei prodotti dell’industria dell’abbigliamento ed è diventata uno strumento al servizio della creatività perché ha moltiplicato le possibilità di sperimentazione dei materiali, delle tecniche, delle forme.

Il primo a intuire le potenzialità creative della progettazione industriale dell’abito è stato Walter Albini, che nel 1968 fu introdotto nell’azienda di maglieria Callaghan di Novara, alla ricerca di uno stilista per realizzare una collezione completa e conquistare un mercato più vasto. Albini diede un apporto decisivo sollecitando l’azienda a modificare le macchine in funzione dei suoi progetti e sviluppando insieme ai tecnici la ricerca sui tessuti e sui colori. Dalle sperimentazioni di Albini sono derivate innovazioni – fra cui la decisione di abbandonare le passerelle fiorentine per sfilare a Milano e la scelta di presentare le collezioni contrassegnate sia dal marchio dell’impresa che dalla firma dello stilista – che hanno impresso una svolta alla storia della moda italiana, tanto che Albini può essere considerato il capostipite della generazione di quegli stilisti che negli ultimi due decenni del Novecento sono stati artefici del successo del prêt-à-porter italiano sui mercati internazionali.

Bibliografia: